mercoledì 13 aprile 2011

BELVEDERE SUL CIE

PHOTO © GIORGIO COSULICH
LAMPEDUSA, 30 Marzo 2011. Immigrati tunisini accendono un fuoco per cucinare, sopra la collina che sovrasta il Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE)

LAMPEDUSA, March 30, 2011. Immigrants from Tunisia ligh up a fire to cook, on a hill overlooking the temporary accomodation centre (CIE)


  di Giorgio Cosulich  


Pietro guardava diritto verso il sole, mentre ci raccontava come era cambiata la sua vita da quando, in gennaio, l’esodo migratorio verso le coste di Lampedusa aveva cominciato ad intensificarsi. Osservava il sole come se lì dentro avesse potuto trovarci qualcosa di inaspettato. Brillava un raggio di luce su uno dei due occhi, quello di vetro che a tratti pareva più espressivo di quello vero. Ero affascinato dal suo sguardo vitreo, nascondeva una saggezza che raramente si incontra ancora. Gente d’altri tempi, cresciuta tra poche cose e valori essenziali, che al verbo preferisce la metafora.
Chiese a Loris Savino e a me da dove venivamo. “Ah, Milano! Lì quasi mi ammazzavano all’ospedale per un calcolo ai reni… Ah, Roma! Quello è si che è l’inferno di politici e lacchè!”. Un uomo piccoletto, spalle larghe e capa tonda, monolitico nell’aspetto, sulla settantina, il viso segnato da profondi solchi, mentre parlava si appoggiava con naturalezza alla pala di un fico d’India, come si fosse trattato della ringhiera sul belvedere di una piazza di paese. “Scusi, ma non si punge la mano sul fico d’India?”. Non risponde nemmeno.
Il suo belvedere era un muretto a secco che delimitava la sua proprietà con un meraviglioso affaccio sulla conca dentro alla quale erano incastonati come perle gli edifici del CIE (Centro Identificazione ed Espulsione), con una disponibilità di 800 posti, che però in quei giorni alloggiava 2700 persone.
“Io non sono studiato e vesto male”, ci disse, “ma so riconoscere la verità delle cose”. La sua vita era cambiata con il transito di circa ventimila tunisini sull’isola. Pietro era ormai costretto ad alzarsi alle 6 del mattino e vegliare sui modesti confini della sua proprietà, per proteggerla dalle intrusioni degli immigrati. “Tutti i giorni sto qua, tranne quando devo assentarmi per andare all’ospedale per fare la dialisi”. Ci invitò a scavalcare quel muretto ed entrare nella sua proprietà, un quarto di ettaro al massimo, ma era tutto quello che aveva. “Seguitemi, vi mostro la mia umile casa”. Lo seguimmo per un breve tratto, prima di arrivare ad un fabbricato abusivo, non ancora intonacato, dentro al quale ormai da anni Pietro viveva dignitosamente. Tutt’intorno c’erano piante ed erbe medicinali che lui usava per decotti serali e unguenti curativi. Ci illustrò le proprietà di alcune piante e allo stesso tempo ci diede suggerimenti su come prepararle. Tra i fiori di lavanda e una pianta di ginestra, ci indicò i resti di un bivacco, la brace spenta, qualche bottiglia di plastica, un paio di pantaloni defecati ed una cintura.  “Vengono qui a mangiare, cacare e pisciare. A volte bussano alla porta, altre volte nemmeno chiedono e si accomodano nel mio giardino, dove preferiscono. Vanno via e lasciano tutto sporco”. Pietro ci mostra i segni dell’invasione. Ci mostra la sua porta di casa sfondata a calci, già riparata. “Hanno tentato diverse volte ad entrare, ma tanto non ho nulla di prezioso, per me possono anche entrare. Solo che mi da fastidio che io non possa essere nemmeno padrone in casa mia. Ho chiesto ad un mio amico carabiniere se potevo sparare, ma lui mi ha risposto che era meglio evitare perché sarei passato dalla parte del torto. Io comunque il fucile ce l’ho sempre carico”. Afferra il suo fucile da caccia e spara un colpo in aria. Ci tramortisce i timpani.
Mentre chiacchieriamo tre immigrati passano il labile confine della sua proprietà un po’ distanti da noi. “Cosa fate qui? Questa è proprietà privata!”. “Toilette, toilette”, rispondono, in cerca di un posto dove fare i propri bisogni. Ma perché qui se c’è una montagna intera a disposizione? Loris ed io salutiamo Pietro, scavalchiamo il muro di cinta e ridiscendiamo la collina verso il CIE per continuare il nostro lavoro.
Il Centro Identificazione ed Espulsione di Lampedusa sorge in una conca, in mezzo all’isola, che rappresenta allo stesso tempo il luogo ideale e quello meno indicato. E’ ideale perché è impossibile notare il Centro se non si sale fino in cima alle colline che lo circondano, dunque un orrore perfettamente nascosto. Ma è il luogo meno indicato perché essendo in una conca non passa un filo d’aria ed è terribilmente caldo d’estate (quando si intensificano gli sbarchi) e dunque maleodorante e difficile da viverci dentro.  Fa una certa impressione a vederlo così, sembra come risucchiato dalla terra stessa, che dopo averlo digerito ne ha rigurgitato gli scarti… Tutt’intorno le colline, un tempo verdi di macchia mediterranea, oggi sono ricoperte da rifiuti di ogni genere: sacchetti, bottiglie, resti alimentari, stracci, scarpe vecchie, pezzi di corda, stralci di rete, ciocche di capelli, escrementi umani, urina, pantaloni strappati,  coperchi, posate, plastiche, polistirolo, bottiglie di detersivo, confezioni di ogni genere, carta, cartone, vetro, metalli, legno.
La recinzione che delimitava il Centro ed impediva la fuga degli immigrati, e che assomigliava più ad una rete da pollaio che ad una vera recinzione, era completamente divelta in più punti dai quali, al ritmo di una persona al minuto o quasi, entravano ed uscivano gli “ospiti” (come ama definirli il governo) in completa liberta e nella totale indifferenza delle forze dell’ordine che pur con uomini e camionette presidiavano costantemente l’entrata al Centro. Ricordo che con Loris ci guardammo sbalorditi, interrogandoci sul senso di tutta quella decadenza, sul perché non aprissero direttamente il cancello principale per lasciar entrare ed uscire gli immigrati. Che senso aveva costringere delle persone ad uscire come fuggiaschi se poi le cose erano fatte alla luce del giorno sotto gli occhi di chi aveva la responsabilità di vegliare sul buon andamento delle cose? E che immagine davamo del nostro paese agli stessi immigrati che erano costretti ad evadere senza motivo? Ipocrisia all’italiana. 
Sopra la recinzione giacevano inermi le telecamere di sorveglianza. “Ma non avete paura di essere ripresi mentre scappate?”. “Quali? Quelle? Sono rotte”. Tutt’intorno, immigrati vecchi e nuovi, in partenza o in arrivo, aveva trovato riparo in alloggi di fortuna dentro e fuori dal Centro. La permanenza sulle colline circostanti da parte degli immigrati sembrava essere una cosa assolutamente normale, perfettamente integrata con il paesaggio. Gruppi di persone, accampati come pastori nomadi, lavavano panni, cucinavano, si faceva la barba in tutta tranquillità sulle alture che dominano il Centro Identificazione. Una pietraia senza riparo, senza appiglio…


PHOTO © GIORGIO COSULICH
LAMPEDUSA, 30 Marzo 2011. Immigrati tunisini escono dal Centro Identificazione ed Espulsione (CIE) attraverso un buco nella rete di recinzione.
LAMPEDUSA, March 30, 2011. Immigrants from Tunisia leaving the temporary accomodation centre (CIE) through a hole in the fence.
E’ stato a evidente a chiunque, a chi c’era e a chi non c’era, che per i poveri malcapitati battente bandiera tunisina non era previsto alcun trattamento di benvenuto, di accoglienza, di ristoro, medico, burocratico, identificativo, psicologico. Due tende allestite dalla Croce Rossa sorgevano come funghi velenosi in una landa desolata di cemento e sole, il porto di Lampedusa. Poco prima della prima ondata di rimpatri, una mattina come per illuminazione divina abbiamo trovato due bagni chimici che avrebbero dovuto servire 6000 persone. All’arrivo dei barconi gli immigrati trovavano un’ambulanza, polizia, stampa e soprattutto i compaesani arrivati prima e già demoralizzati per il non trattamento. Nessun genere di conforto, non una tazza di tea caldo per gli arrivi notturni, nessuna identificazione, nessun controllo medico. Se eri moribondo avevi diritto ad una cover di alluminio fino alla barella. La cover te la potevi tenere. Va riconosciuto che però il governo italiano ha messo a disposizione degli immigrati una copertina di carta (come quella stesa sul lettino del medico), un paio di scarpe, una maglietta a maniche corte e la possibilità di fare campeggio libero sulla collina davanti al porto. Una colazione fatta di un tozzo di pane e un litro di latte, un pranzo ed una cena di pasta o riso al sugo, fagioli, pane, acqua e qualche altra cosa che forse ora dimentico. Ci sono stati barconi che al loro arrivo non sono stati nemmeno degni dell’attenzione dei soccorsi e le persone sono sbarcate da sole, incredule come Cristoforo Colombo quando tocco terra. Nessuna informazione all’arrivo, nessuno sa niente, nessuno può dirti niente, il niente di niente. Venivo fermato di continuo da qualcuno che mi chiedeva che fine avrebbe fatto il giorno dopo o a chi avrebbe dovuto rivolgersi per appartenere ad un gruppo, per essere trasferito o semplicemente per avere notizie sul proprio destino. Non sapevo che rispondere. Per la verità avrebbero potuto rivolgersi ai mediatori culturali, persone incaricate di tradurre e di mediare le necessità e le richieste degli immigrati. Peccato che erano in due a servire 6000 persone.

PHOTO © GIORGIO COSULICH
LAMPEDUSA, 29 Marzo 2011. Immigrati tunisini all'interno della tendopoli da loro costruita sulla collina sovrastante la zona portuale.

LAMPEDUSA, March 29, 2011. Immigrants from Tunisia gather in the tentcity they built up on a hill overlooking the sea port area.




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