domenica 24 aprile 2011

LAMPEDUSA E' IL VENTO

di Max Abordi
  
"I veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre "Andiamo" e non sanno perchè. I loro desideri hanno le forme delle nuvole.” (Charles Baudelaire)  

Il mio viaggio verso l’isola e’ iniziato alla fine di marzo, raggiungere Lampedusa via terra diventa  una lunga attesa:  prima la macchina, poi ore e ore in nave i mezzo al mare, di nuovo la macchina . Il viaggio all’inizio e’ condiviso. Prima il primo centro di smistamento a Mineo, il parco giochi. Poi  Porto Empedocle fino a Lampedusa otto ore di nave, e il viaggio fatto assieme a dei Carabinieri,  col  pensiero delle parole di un lampedusano : “Mi viene da piangere a pensare al Porto!” E all’arrivo finalmente, il Porto:  era una distesa umana. La situazione e’  degenerata in caos i continui sbarchi avevano stremato l’isola di Lampedusa quasi al collasso con il rischio di uno scontro tra i migranti tunisini e la popolazione, accampamenti e tende e la plastica dei sacchetti e delle bottiglie d’acqua. Poi con un colpo di bacchetta l’isola è stata sgomberata con l’ utilizzo di sei grandi navi e l’impiego di un numero dispendioso di forze dell’ordine. Ma la cronaca dopo un pò di tempo lascia spazio alla riflessione.

PHOTO © MAX ABORDI
LAMPEDUSA, Marzo 2011 - Immigranti tunisini manifestano nel centro del paese
LAMPEDUSA, March 2011 - Immigrants from Tunisia protest in town center
Di quei giorni ricordo il caos ma anche  la grande  energia che si respirava sull’Isola,  un desiderio,  quella speranza che accumunava tutti i tunisini che avevano affrontato un viaggio in mare faticosissimo col coraggio dei grandi marinai  e con la grande speranza che li faceva volare come gabbiani sicuri del loro volo. Lampedusa e’ il Vento. Li  respira  l’entusiasmo perchè si leggeva negli occhi dei ragazzi tunisini un desiderio  e una grande voglia di cambiamento che li faceva superare le enormi difficoltà climatiche. 
Il vento rende l’ isola molto fredda di notte. E partiti con pochissimo bagaglio, un sacchetto o uno zainetto si puòl solo immaginare quanto il loro entusiasmo sopperisse alle enormi difficoltà  e la mancanza di un riparo.
L’ isola ha vegliato su di loro e gli ha offerto un pò di riposo per il loro lungo volo  verso Ventimiglia e chissà  oltre. Poi passa l’emergenza e si torna alla normalità. L’isola è di nuovo sotto controllo e i migranti riportati nella gabbia del Cpt di Imbriacola, ripulito e ricucito  per bene.  Chiuso e sigillato e controllato a vista  e il filo spinato e’ tornato di nuovo  al posto delle tende e dei fuochi.

PHOTO © MAX ABORDI
LAMPEDUSA, March 2011 - Uccelli rapaci volano sulla tendopoli allestita dagli immigrati su una collina che da sul porto dell'isola
LAMPEDUSA, March 2011 - Birds of prey fly over the tent city set up by immigrants on a hill overlooking the sea port of the island
Mi chiedo: per dei ragazzi di 20 25 chiuderli in una gabbia quando erano alla ricerca di una nuova speranza, cosa può produrre? La fine del sogno, e la paura del rimpatrio  perche’ li sanno che saranno massacrati di botte dalla Polizia tunisina. L’ansia.  Ma li non ci sono psicologi forse  solo la solidarieta’ dei volontari.
  E’ martedi 13 o 12 aprile sull’isola quasi si perde la cognizione del tempo, la situazione sembra sotto controllo orami nessun tunisino e’ piu’ in giro la maggior parte e’ stata imbarcata nei giorni scorsi e il manicomio del Porto di Lampedusa come ‘e stato definito dai cittadini dell’isola e’  ripulito. Uso il termine manicomio perchè credo che gli italiani di facciata siano brava gente ma in realtà nascondono un bel po’ di ipocrisia … abbiamo paura dei giudizi altrui. Mi arrabatto, la mattina non succede quasi nulla tranne   l’imbarco a cala Pisana. Cosi inizio a girare per l’ìsola, in bicicletta, compagna fedele, sono alla ricerca del Cpt  di zona Imbriacola stavolta l’accesso e’ chiuso dalle Forze dell’Ordine. Il centro di detenzione temporanea è blindato!
Passa un po’ qualche saliscendi che mi taglia le gambe ed eccomi raggiungere gli altri colleghi appostati in alto come falchi predatori in attesa di qualcosa, il collega della Reuters si lamenta che ha prestato il tele- obiettivo  a un collega  giapponese e mi ripete : “Mai e poi mai presterò l’obiettivo a un collega.” E’ la solita questione, pensava di aver perso  una foto importante . Le attese sotto il sole possono diventare stressanti.
E i fotografi lo sanno!
Ecco in un attimo si sente tensione, qualche grida, poi fumo salire dal centro, e’ il panico e qualche ragazzo si sentira’ male!
I tunisini iniziano a correre e si arrampicano su per la rete di recinzione e la scavalcano, corrono in alto forse sperando di liberarsi in volo gridano : “Libertè” , e corrono in alto fin oltre le telecamere qualcuno si ferma perche’ capisce che da lì  e’ impossibile scappare ma altri ci provano e corrono sperando Insciallah di arrivare da qualche parte ma l’isola e’ piccola , e’  un approdo per i gabbiani stanchi della traversata nel Canale di Sicilia.
Ora il mio viaggio e’ continuato fino a Ventimiglia e il loro pure, li ho incontrati sul treno regionale che andava alla frontiera con la Francia erano in tre Mohammed quello più malconcio influenzato e stanco e nervoso e Nabil il più giovane e sorridente e la malinconia negli occhi  “Bonne chance mes amis”.
A Ventimiglia il desiderio di libertà è più profondo e grande del mare, costringe non solo a rinunciare alla famiglia, abbandonare la propria citta’  il proprio Paese, lasciarsi alle spalle attese e sentimenti, si infrange  contro la selettivita’ dell’Europa ricca,  con la violenza degli uomini, la discriminazione e la reclusione.

PHOTO © MAX ABORDI
LAMPEDUSA, Marzo 2011 - Immigrati nord africani fuggono dal Centro Identificazione ed Espulsione (CIE) dell'isola
LAMPEDUSA, MArch 2011 - Immigrants from north Africa escape from the Temporary Housing centre (CIE) of the island


sabato 16 aprile 2011

SGUARDI

  di Paolo Poce  

Sono arrivato a Lampedusa il 23 marzo, lo stesso giorno in cui la nave San Marco avrebbe cominciato a trasportare i migranti tunisini nei centri di accoglienza italiani, e mi sono detto, vediamo ora dove li porteranno, non possono certo lasciarli in queste condizioni. Il centro di prima accoglienza già scoppiava e iniziavano a nascere le prime tende sulla collina che si affaccia sul molo.  Col passare delle ore la situazione però peggiorava a vista d'occhio. Barconi su barconi riversavano uomini stremati come stracci portati dalla corrente. 

PHOTO © PAOLO POCE
Lampedusa, Marzo 2011 - Immigrati tunisini dormono sul molo in attesa della distribuzione dei pasti
Lampedusa, March 2011 - Tunisian immigrants are sleeping on the pier waiting for food distribution

La speculazione della peggior politica aumentava di pari passo, invece di cercare soluzioni che allentassero la tensione che si stava creando sull'isola, si sono succeduti i peggiori sciacalli che facendo leva su i timori della gente aumentavano paure recondite di chissà quale sciagura si potesse abbattere sulle loro vite con l'arrivo dei tunisini. E cosi si richiamava all'invasione, allo tsunami, all'esodo biblico, all'arrivo di predoni sulle "nostre" coste, che avrebbero portato criminalità e disastri in tutta Europa. Frontiere chiuse. Tendopoli costrittive. Rimpatri forzati. Centri di detenzione. Queste le uniche risposte dell'occidente,civile, moderno. 

Sulla collina, sul molo, in giro per il paese c'erano solo loro, i tunisini, neppure tantissimi, ma sicuramente troppi per le dimensioni dell'isola, costretti a stare lì perchè la pressione sull'Europa si facesse più forte, perchè "politicamente" faceva comodo che si creasse un "allarme lampedusa". 
 Incrociare i loro sguardi, sperduti appena sbarcati, speranzosi quando gli si diceva che li avrebbero portati in puglia o sicilia, intorrogativi quando ci chiedevano se sarebbe stato semplice scappare dalle tendopoli per raggiungere fratelli, amici, parenti o semplicemente per continuare a inseguire il sogno di vivere nell'Europa ricca della televisione o del web, rendevano un quadro completamente diverso da quello che si poteva percepire da Milano o da Roma o da chiunque non vivesse quei momenti. 



PHOTO © PAOLO POCE
Lampedusa, marzo 2011 - Sbarco di una giovane famiglia
Lampedusa, March 2011 - Landing of a young family

In molti non capivano cosa gli venisse detto, i mediatori culturali erano pochissimi e le forze dell'ordine non parlavano nemmeno un po' di francese. Si spargevano sull' isola voci incontrollate che spaventavano tutti, e loro cercavano risposte e conferme da chiunque potesse dare un'informazione in più. E non capivano perchè erano costretti a vivere cosi, per quanto tempo ancora dovevano sopportare e come poteva andare a finire. 
Nei loro occhi si leggeva la semplicità delle loro speranze, la paura per il loro futuro, la stanchezza per le fatiche e le condizioni di vita.
Se tutti avessero potuto vedere quello che è successo in quei giorni, se tutti potessero guardare negli occhi questi "invasori", ci sarebbe meno paura, ne sono convinto. E il nostro sguardo incontrando il loro ci avrebbe reso più umani. Ed è successo, quando molti lampedusani accoglievano o cercavano di migliorare questa vergogna tutta italiana.
Ma gli occhi e lo sguardo di questi ragazzi rischia di diventare disilluso e poi duro e violento se continueremo a trattarli cosi, e noi invece dovremmo abbassarlo lo sguardo per la nostra incomprensione, per la nostra indifferenza, per il cinismo delle istituzioni.

PHOTO © PAOLO POCE
Lampedusa, marzo 2011 - Immigrati tunisini in attesa dell' imbarco per il centro di accoglienza di Manduria
Lampedusa, March 2011 - Tunisian immigrants waiting to be shipped to the Manduria reception center

giovedì 14 aprile 2011

LA DIGNITA' STUPRATA

PHOTO © ROBERTO SALOMONE
ITALIA, Lampedusa : Immigrati nordafricani aspettano di essere trasferiti al CIE (Centro Identificazione ed Espulsione) di Lampedusa.
Would be immigrants wait to be transferred to a temporary accomodation center on the island of Lampedusa.









PHOTO © ROBERTO SALOMONE
ITALIA, Lampedusa: Un barcone pieno di immigrati clandestini naviga verso le coste dell'isola di Lampedusa.
ITALY, Lampedusa: A boat full of would be immigrants navigates towards the italian island of Lampedusa.

PHOTO © ROBERTO SALOMONE
ITALY, Lampedusa: un ragazzo tunisino si ripara dal freddo appoggiato ad un cassonetto della spazzatura, al porto.
ITALY, Lampedusa: a Tunisian guy shield himself from the cold leaning against a garbace box, at the sea port.

  di Roberto Salomone  

di notte, sbarcano a lampedusa, l'isola.
bussano timidamente alla porta dell'europa.
nessuna risposta.
lampedusa (italia...si italia) (r)accoglie essere umani.
sulla collina del disonore mi chiedono: "amigo, ma questa è davvero italia? davvero italia?"
poche ore prima di toccare terra,  a trenta miglia dalle coste di lampedusa, da un barcone con a bordo 350 migranti si udivano le note dell'inno di mameli; si, l'inno italiano.
fratelli d'italia bla bla bla.
già, fratelli; fratelli d'italia.
davanti al monitor è difficile x me riordinare le idee sotto forma di parole.
impossibile ingabbiare dentro le parole le sensazioni vissute.
una cosa è certa però.
mi son vergognato. tanto
vergognato non di essere italiano ma di aver "visto", documentato con i miei occhi uno scempio,.
uno stupro della dignità umana.
fatta a brandelli da una bestia (senza denti affilati).
da tanti fratelli, fratelli d'italia appunto.

IL CORPO DEI MIGRANTI

 PHOTO © EMILIANO MANCUSO
Migranti tunisini dopo lo sbarco a Lampedusa 
Tunisian migrants after landing on Lampedusa Isle


  di Laura Eduati  

Il primo contatto è l'odore, e la vergogna per quell'odore.“Guarda le mie mani, ho le unghie sporche e provo fastidio a portare il cibo alla bocca. Non ci laviamo da giorni, i nostri vestiti puzzano, la barba cresce, non abbiamo sapone”. Sono le parole di Hamed, tunisino sbarcato a Lampedusa, ma potrebbero essere le parole di un raccoglitore africano di Rosarno, o quelle di un qualsiasi migrante rinchiuso nei Centri di identificazione ed espulsione.
Il corpo dei migranti è un corpo vivo, un giovane corpo maschile che scavalca le reti della tendopoli di Manduria e corre a perdifiato attraverso i campi, rincorso da poliziotti a cavallo come fosse una volpe durante una battuta di caccia. Diventare migrante, spesso, è un ritorno alla bestialità, ai giacigli improvvisati nelle fenditure delle rocce, al pranzo consegnato in bacinelle per il bucato come accade nei centri di detenzione per stranieri di Malta, senza forchette.
E con la bestialità torna la puzza di un corpo non lavato. “I negri puzzano”, disse un giorno il sindaco dell'isola Bernardino de Rubeis guadagnandosi una denuncia per odio razziale. Sì, puzzano. Ma non vogliono puzzare. E' una puzza voluta dalla politica e dalla propaganda: odorateli, sono come i cani. Guardate, fanno i loro bisogni all'aperto come le scimmie. E non importa che ci siano quattro bagni chimici per quattromila persone.

Gli oltre ventimila tunisini approdati in Italia sono quasi tutti maschi poco più che ventenni. Arrivano con i loro vestiti migliori, magliette con griffe taroccate, scarpe da ginnastica comode e sformate, un telefonino e un account su Facebook. Sono sani, forti.  Sono giovani.
“Ci rubano le nostre donne”, dicono i militanti della destra radicale riferendosi alla loro energia sessuale e alla ferina impossibilità di trattenere gli istinti. Poiché vengono trattati come cani randagi, esattamente come cani randagi vengono temuti: potrebbero stuprare, assalire, fare violenza, mordere.
Il loro corpo fa paura perché è virilmente potente. Fa paura perché resiste ai fili spinati, alle reti, alle sbarre. Negli anni scorsi Medici senza frontiere e Medici nel mondo hanno pubblicato dossier nei quali accusavano i gestori dei Centri di identificazione ed espulsione – un tempo Cpt – di somministrare dosi eccessive di ansiolitici agli stranieri detenuti. Nel centro di Restinco (Brindisi) l'80% dei migranti assumeva benzodiazepine e tranquillanti. Nella struttura di Ponte Galeria si scoprì che spesso il Valium veniva mescolato ai cibi per tenere tranquilli i prigionieri, di notte e di giorno, e per prevenire fughe o rivolte. Una pastiglia, e quei muscoli diventano inerti. Perché invece quando il corpo è sveglio e vegeto cominciano le proteste, e innumerevoli sono le ribellioni nei centri per migranti: materassi dati alle fiamme, scontri con la polizia, manganellate.

PHOTO © EMILIANO MANCUSO 
Migranti tunisini protestano per il ritardo nella consegna del pranzo. 
Tunisian migrants riot over late lunch
Il corpo dei migranti spesso è ferito e le ferite sono molte volte atti di autolesionismo. Joy, la ragazza che per prima ha denunciato un ispettore di polizia per violenza sessuale nel Cie di Milano, provò un giorno a bere del detersivo. Voleva morire. A Bologna nelle scorse settimane alcuni tunisini si sono cuciti la bocca con ago e filo. Oppure ingoiano lamette da barba. O rifiutano il cibo. Nel primissimo stadio dell'immigrazione, quando tutto è alieno, i migranti possiedono soltanto il loro corpo e usano quello per comunicare disagio, insofferenza, rabbia. Come Noureddine, l'ambulante tunisino di Palermo che si è dato fuoco per protestare contro le vessazioni dei vigili urbani.
Perché il corpo è muto, anche: nella fiumana di ventimila persone sbarcate, la voce singola si ammutolisce e l'etichetta “clandestino” o “profugo” basta da sola a definire quello che avrebbero da dire, e quello che avrebbero da dire non ci interessa. Ripetono che non vogliono rimanere in Italia, ma sono voci mugghianti che non codifichiamo. A Lampedusa sarebbe bastato un megafono per comunicare, in arabo grazie agli interpreti, gli orari dei pasti oppure le informazioni più elementari.  Non è stato fatto, perché gli animali non capiscono il linguaggio degli umani.
Corpi umani divenuti bestie, i migranti vengono toccati con guanti di lattice, una mascherina per proteggere dalle contaminazioni. I medici ripetono vanamente che i migranti non sbarcano malati, ma si ammalano in Italia a causa delle condizioni di vita. A Lampedusa molti tunisini che dormono protetti da un solo giubbetto dopo qualche giorno tossiscono, hanno la febbre, mal di testa, infezioni gastrointestinali. Hamed aveva rotto un dente mangiando del pane raffermo. La radice era visibile, e il dolore non lo faceva dormire. Aveva le vertigini. Si teneva la mano davanti alla bocca perché si vergognava di quei denti sporchi e malandati.
Nelle ore di ozio sul molo a centinaia sciacquavano camicie e jeans fatti asciugare sulle grate sfondate che proteggono la banchina. Corpi irrequieti al sole, dapprincipio imbarazzati con le giornaliste e le operatrici e poi giorno dopo giorno più sfrontati, sguardi allupati, provocazioni. L'astinenza sessuale pare una questione secondaria e invece è un'altra sofferenza inflitta al corpo dei migranti quando vengono costretti a rimanere lontani dalla quotidianità.


Lampedusa è diventata un'isola di maschi senza donne, un luogo di soli uomini come le carceri e le caserme. In uno delle decine di barconi è arrivata un giorno una donna giovane, tunisina, che nel giro di poco è diventata lo sfogo sessuale dei confinati finché le forze dell'ordine hanno messo fine al mercato. Succede anche nelle campagne foggiane, dove nelle baracche dei raccoglitori di pomodoro arrivano le prostitute nigeriane costrette a soddisfare le loro voglie. Pigiati uno sull'altro, privati della libertà e di una donna, i rapporti omosessuali diventano frequenti. “I Cie sono luoghi di promiscuità sessuale assoluta”, garantisce un poliziotto in servizio a Lampedusa e spesso nei centri. Si accoppiano come bestie, persino contro natura, è il pensiero sottaciuto. Perché di quei corpi definiti illegali comincia a dare fastidio qualsiasi funzione: la fame, il sonno, il bisogno di una coperta, l'odore, l'istinto sessuale reso ancora più insopprimibile dalla giovane età.
Noi cittadini europei protetti da abiti puliti, lavati quotidianamente o quasi, invecchiati e mezzo sterili, rifocillati e soddisfatti dei nostri bisogni primari, viviamo l'incontro con i migranti animalizzati come un autentico choc. E' il corpo umano al grado zero. E di quel grado zero poco, pochissimo viene raccontata la vergogna. La vergogna di puzzare, di portare jeans macchiati e maleodoranti, di accendere un fuoco su una collina per cucinare del pesce. Il messaggio mediatizzato è quello di una valanga di corpi selvaggi, maschi dai muscoli pronti alla violenza, dagli appetiti enormi, senza voce, maschi in calore che si accontenterebbero di qualsiasi altro corpo da stringere.
Occorre soltanto restringere lo zoom e osservare il tentativo di re-umanizzazione. A Ponte Mammolo, Roma, alcuni rumeni vivevano in autentiche caverne scavate nella roccia. Le loro baracche erano poverissime, ma all'interno ogni cosa appariva ordinata e pulita. A Rosarno un ragazzo tunisino, ingegnere, dormiva in un letto lercio ma rifatto alla perfezione. A Lampedusa   i tunisini scioperavano: “Non siamo venuti qui soltanto per mangiare. Non siamo cani”.


La novità di questi ultimi sbarchi è la mobilitazione di un'intera generazione di giovani maschi, molti laureati e tutti familiarizzati col web, che giustamente non accettano di essere soltanto corpo polveroso, sudato e affamato. E allora fuggono dalla bestializzazione, dai recinti che assomigliano ad ovili, dal gregge che silenzia le loro parole. Man mano che si allontanano da Manduria, come da qualsiasi altro luogo di animalizzazione, i corpi dei migranti cominciano ad assomigliare ai nostri. Lavati, addomesticati, meno spontanei e meno energici. E ci fanno meno paura.

mercoledì 13 aprile 2011

BELVEDERE SUL CIE

PHOTO © GIORGIO COSULICH
LAMPEDUSA, 30 Marzo 2011. Immigrati tunisini accendono un fuoco per cucinare, sopra la collina che sovrasta il Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE)

LAMPEDUSA, March 30, 2011. Immigrants from Tunisia ligh up a fire to cook, on a hill overlooking the temporary accomodation centre (CIE)


  di Giorgio Cosulich  


Pietro guardava diritto verso il sole, mentre ci raccontava come era cambiata la sua vita da quando, in gennaio, l’esodo migratorio verso le coste di Lampedusa aveva cominciato ad intensificarsi. Osservava il sole come se lì dentro avesse potuto trovarci qualcosa di inaspettato. Brillava un raggio di luce su uno dei due occhi, quello di vetro che a tratti pareva più espressivo di quello vero. Ero affascinato dal suo sguardo vitreo, nascondeva una saggezza che raramente si incontra ancora. Gente d’altri tempi, cresciuta tra poche cose e valori essenziali, che al verbo preferisce la metafora.
Chiese a Loris Savino e a me da dove venivamo. “Ah, Milano! Lì quasi mi ammazzavano all’ospedale per un calcolo ai reni… Ah, Roma! Quello è si che è l’inferno di politici e lacchè!”. Un uomo piccoletto, spalle larghe e capa tonda, monolitico nell’aspetto, sulla settantina, il viso segnato da profondi solchi, mentre parlava si appoggiava con naturalezza alla pala di un fico d’India, come si fosse trattato della ringhiera sul belvedere di una piazza di paese. “Scusi, ma non si punge la mano sul fico d’India?”. Non risponde nemmeno.
Il suo belvedere era un muretto a secco che delimitava la sua proprietà con un meraviglioso affaccio sulla conca dentro alla quale erano incastonati come perle gli edifici del CIE (Centro Identificazione ed Espulsione), con una disponibilità di 800 posti, che però in quei giorni alloggiava 2700 persone.
“Io non sono studiato e vesto male”, ci disse, “ma so riconoscere la verità delle cose”. La sua vita era cambiata con il transito di circa ventimila tunisini sull’isola. Pietro era ormai costretto ad alzarsi alle 6 del mattino e vegliare sui modesti confini della sua proprietà, per proteggerla dalle intrusioni degli immigrati. “Tutti i giorni sto qua, tranne quando devo assentarmi per andare all’ospedale per fare la dialisi”. Ci invitò a scavalcare quel muretto ed entrare nella sua proprietà, un quarto di ettaro al massimo, ma era tutto quello che aveva. “Seguitemi, vi mostro la mia umile casa”. Lo seguimmo per un breve tratto, prima di arrivare ad un fabbricato abusivo, non ancora intonacato, dentro al quale ormai da anni Pietro viveva dignitosamente. Tutt’intorno c’erano piante ed erbe medicinali che lui usava per decotti serali e unguenti curativi. Ci illustrò le proprietà di alcune piante e allo stesso tempo ci diede suggerimenti su come prepararle. Tra i fiori di lavanda e una pianta di ginestra, ci indicò i resti di un bivacco, la brace spenta, qualche bottiglia di plastica, un paio di pantaloni defecati ed una cintura.  “Vengono qui a mangiare, cacare e pisciare. A volte bussano alla porta, altre volte nemmeno chiedono e si accomodano nel mio giardino, dove preferiscono. Vanno via e lasciano tutto sporco”. Pietro ci mostra i segni dell’invasione. Ci mostra la sua porta di casa sfondata a calci, già riparata. “Hanno tentato diverse volte ad entrare, ma tanto non ho nulla di prezioso, per me possono anche entrare. Solo che mi da fastidio che io non possa essere nemmeno padrone in casa mia. Ho chiesto ad un mio amico carabiniere se potevo sparare, ma lui mi ha risposto che era meglio evitare perché sarei passato dalla parte del torto. Io comunque il fucile ce l’ho sempre carico”. Afferra il suo fucile da caccia e spara un colpo in aria. Ci tramortisce i timpani.
Mentre chiacchieriamo tre immigrati passano il labile confine della sua proprietà un po’ distanti da noi. “Cosa fate qui? Questa è proprietà privata!”. “Toilette, toilette”, rispondono, in cerca di un posto dove fare i propri bisogni. Ma perché qui se c’è una montagna intera a disposizione? Loris ed io salutiamo Pietro, scavalchiamo il muro di cinta e ridiscendiamo la collina verso il CIE per continuare il nostro lavoro.
Il Centro Identificazione ed Espulsione di Lampedusa sorge in una conca, in mezzo all’isola, che rappresenta allo stesso tempo il luogo ideale e quello meno indicato. E’ ideale perché è impossibile notare il Centro se non si sale fino in cima alle colline che lo circondano, dunque un orrore perfettamente nascosto. Ma è il luogo meno indicato perché essendo in una conca non passa un filo d’aria ed è terribilmente caldo d’estate (quando si intensificano gli sbarchi) e dunque maleodorante e difficile da viverci dentro.  Fa una certa impressione a vederlo così, sembra come risucchiato dalla terra stessa, che dopo averlo digerito ne ha rigurgitato gli scarti… Tutt’intorno le colline, un tempo verdi di macchia mediterranea, oggi sono ricoperte da rifiuti di ogni genere: sacchetti, bottiglie, resti alimentari, stracci, scarpe vecchie, pezzi di corda, stralci di rete, ciocche di capelli, escrementi umani, urina, pantaloni strappati,  coperchi, posate, plastiche, polistirolo, bottiglie di detersivo, confezioni di ogni genere, carta, cartone, vetro, metalli, legno.
La recinzione che delimitava il Centro ed impediva la fuga degli immigrati, e che assomigliava più ad una rete da pollaio che ad una vera recinzione, era completamente divelta in più punti dai quali, al ritmo di una persona al minuto o quasi, entravano ed uscivano gli “ospiti” (come ama definirli il governo) in completa liberta e nella totale indifferenza delle forze dell’ordine che pur con uomini e camionette presidiavano costantemente l’entrata al Centro. Ricordo che con Loris ci guardammo sbalorditi, interrogandoci sul senso di tutta quella decadenza, sul perché non aprissero direttamente il cancello principale per lasciar entrare ed uscire gli immigrati. Che senso aveva costringere delle persone ad uscire come fuggiaschi se poi le cose erano fatte alla luce del giorno sotto gli occhi di chi aveva la responsabilità di vegliare sul buon andamento delle cose? E che immagine davamo del nostro paese agli stessi immigrati che erano costretti ad evadere senza motivo? Ipocrisia all’italiana. 
Sopra la recinzione giacevano inermi le telecamere di sorveglianza. “Ma non avete paura di essere ripresi mentre scappate?”. “Quali? Quelle? Sono rotte”. Tutt’intorno, immigrati vecchi e nuovi, in partenza o in arrivo, aveva trovato riparo in alloggi di fortuna dentro e fuori dal Centro. La permanenza sulle colline circostanti da parte degli immigrati sembrava essere una cosa assolutamente normale, perfettamente integrata con il paesaggio. Gruppi di persone, accampati come pastori nomadi, lavavano panni, cucinavano, si faceva la barba in tutta tranquillità sulle alture che dominano il Centro Identificazione. Una pietraia senza riparo, senza appiglio…


PHOTO © GIORGIO COSULICH
LAMPEDUSA, 30 Marzo 2011. Immigrati tunisini escono dal Centro Identificazione ed Espulsione (CIE) attraverso un buco nella rete di recinzione.
LAMPEDUSA, March 30, 2011. Immigrants from Tunisia leaving the temporary accomodation centre (CIE) through a hole in the fence.
E’ stato a evidente a chiunque, a chi c’era e a chi non c’era, che per i poveri malcapitati battente bandiera tunisina non era previsto alcun trattamento di benvenuto, di accoglienza, di ristoro, medico, burocratico, identificativo, psicologico. Due tende allestite dalla Croce Rossa sorgevano come funghi velenosi in una landa desolata di cemento e sole, il porto di Lampedusa. Poco prima della prima ondata di rimpatri, una mattina come per illuminazione divina abbiamo trovato due bagni chimici che avrebbero dovuto servire 6000 persone. All’arrivo dei barconi gli immigrati trovavano un’ambulanza, polizia, stampa e soprattutto i compaesani arrivati prima e già demoralizzati per il non trattamento. Nessun genere di conforto, non una tazza di tea caldo per gli arrivi notturni, nessuna identificazione, nessun controllo medico. Se eri moribondo avevi diritto ad una cover di alluminio fino alla barella. La cover te la potevi tenere. Va riconosciuto che però il governo italiano ha messo a disposizione degli immigrati una copertina di carta (come quella stesa sul lettino del medico), un paio di scarpe, una maglietta a maniche corte e la possibilità di fare campeggio libero sulla collina davanti al porto. Una colazione fatta di un tozzo di pane e un litro di latte, un pranzo ed una cena di pasta o riso al sugo, fagioli, pane, acqua e qualche altra cosa che forse ora dimentico. Ci sono stati barconi che al loro arrivo non sono stati nemmeno degni dell’attenzione dei soccorsi e le persone sono sbarcate da sole, incredule come Cristoforo Colombo quando tocco terra. Nessuna informazione all’arrivo, nessuno sa niente, nessuno può dirti niente, il niente di niente. Venivo fermato di continuo da qualcuno che mi chiedeva che fine avrebbe fatto il giorno dopo o a chi avrebbe dovuto rivolgersi per appartenere ad un gruppo, per essere trasferito o semplicemente per avere notizie sul proprio destino. Non sapevo che rispondere. Per la verità avrebbero potuto rivolgersi ai mediatori culturali, persone incaricate di tradurre e di mediare le necessità e le richieste degli immigrati. Peccato che erano in due a servire 6000 persone.

PHOTO © GIORGIO COSULICH
LAMPEDUSA, 29 Marzo 2011. Immigrati tunisini all'interno della tendopoli da loro costruita sulla collina sovrastante la zona portuale.

LAMPEDUSA, March 29, 2011. Immigrants from Tunisia gather in the tentcity they built up on a hill overlooking the sea port area.




martedì 12 aprile 2011

LA DIGNITA'

  di Massimo Di Nonno  

La domanda che mi hanno rivolto in molti era: “ma perché ci trattano in questo modo? Senza dignità. Noi in Tunisia ai profughi che arrivavano dalla Libia li abbiamo aiutati”. Ho potuto vedere con i miei occhi quanto lavoravano i volontari tunisini nel campo profughi di Choucha al confine con la Libia.
Infaticabili provvedevano alle esigenze di un campo che ogni giorno accoglieva 1000 persone che arrivavano dalla Libia. A tutte le ore e sempre molto disponibili. Nel periodo in cui sono stato in Tunisia, il campo ha ospitato anche 20000 persone.

PHOTO © MASSIMO DI NONNO
Ras Ajdir, 15 Marzo ore 17e30: volontari tunisini si concedono una pausa dopo giorni di massacrante lavoro. Con la passione e la buona volontà hanno accolto ed aiutato i profughi arrivati in migliaia dalla Libia. 
Ras Ajdir, March 15 at 5,30pm: Tunisian volunteers take a break after days ofexhausting work. With the passion and goodwill they have welcomed and helped the refugees arrived in thousands from Libya.
PHOTO © MASSIMO DI NONNO
Lampedusa, 27 Marzo ore 7e15: due ragazzi tunisini dormono all'aperto a causa della mancanza di strutture idonee ad ospitarl li.
LampedusaMarch 27 at 7,15am: two Tunisian children are sleeping outside because of the lack of suitable facilities to house them.
Rientrato in Italia sono ripartito subito per Lampedusa. Lo scenario era completamente diverso. I migranti sbarcati sull’isola venivano abbandonati a loro stessi. Forse immaginavano di arrivare, dopo ore o giorni di navigazione, e non certo su una nave da crociera, e di trovare qualcosa di caldo da bere, un letto al coperto, o magari anche solo una coperta.
Invece niente di tutto ciò. Un sacco letto di carta e la campagna intorno al porto.
Per giorni in questa condizione. E questo solo per i giochi politici tra Italia, Francia ed Europa.
Io da italiano mi sono sentito in dovere di chiedergli scusa, da europeo mi viene da dirgli “welcome in Europe”.
Sull’immigrazione ognuno puo avere le proprie idee ma sulla dignità delle persone no.

L'idea di inserire una foto dei volontari tunisini che giocano a pallone, dopo giorni di massacrante lavoro, accanto ad una scattata a Lampedusa, è un tentativo di restituire alla gente di questo paese una dignità che gli è stata negata a Lampedusa.

domenica 10 aprile 2011

ESPERANCE DE TUNIS...

PHOTO © ALESSANDRA BENEDETTI
Esperance de Tunis è un'associazione sportiva creata nel 1919 a Tunisi. La squadra di calcio chiamata Taraji Esperance de Tunis è la più conosciuta e la più  tifata del paese




  di Alessandra Benedetti  


Quando un ragazzo al porto mi ha mostrato con orgoglio la sacca della sua squadra del cuore non ho potuto fare a meno di fotografarlo... E' un'immagine positiva e fiera di un popolo che dopo la rivoluzione dei gelsomini si è trovato a dover decidere di emigrare per cercare un futuro migliore in Europa. Esperance de Tunis, Speranza di Tunisi.... Una volta arrivati a Lampedusa, nessuno di loro si sarebbe mai immaginato di dovere restare confinato su questo lembo di terra rocciosa africana, prima terra europea in territorio italiano, per così tanti giorni.
Quasi tutti gli arrivati sull'isola, tra i 20 e i 40 anni, speravano di poter essere trasferiti al più presto sulla terra ferma italiana per poi poter raggiungere i propri familiari nel nord Italia o per cercare lavoro in Francia, Germania o Belgio. La frase che noi tutti ci siamo sentiti ripetere in quei giorni caotici era sempre la stessa: noi no Tunisia, noi Italia, "Sisilia", Francia, Germania.
Io e Massimo Di Nonno una sera seguendo un sbarco al porto... ci siamo soffermati sui volti degli arrivati che gridavano dai barconi e parlavano con chi già era sull'isola da 7-10 giorni; all'inizio speranzosi quasi felici, ma che poi, prima di sbarcare venivano ammoniti dai loro connazionali e improvvisamente cambiavano espressione, rendendosi conto che la loro attesa su Lampedusa si sarebbe perpetuata per un tempo non quantificabile.
Il governo italiano avrebbe potuto intervenire con maggiore anticipo ed evitare che la situazione degenerasse... 64'00 tunisini stipati a Lampedusa, la metà dei quali nell'area del porto, con gravi carenze igieniche e sanitarie... costretti a dormire a cielo aperto in tende realizzate con materiali di fortuna... al freddo. L'esasperazione è poi montata come sappiamo alle stelle ed il governo è dovuto intervenire in fretta e furia nel rispetto giusto dei cittadini Lampedusano e dei Tunisini.
Mi domando xchè si sia dovuto aspettare il 30 marzo per intervenire e xchè queste persone abbiano dovuto trascorrere 10 giorni in condizioni così precarie...
Una volta trasferiti sulla terra ferma le cose non sono cambiate, le immagini forti a Manduria e Ventimiglia credo che abbiano colpito ognuno di noi, ragazzi che scavalcavano le recinzioni e che scappavano via nella campagna pugliese... che su al nord cercano di varcare il confine... verso la Francia... e gli altri paesi europei... Esperance de Tunis...

PHOTO © ALESSANDRA BENEDETTI
Nord africani in fila per la distribuzione del pranzo, nel porto di Lampedusa. L'Isola è affollata da più di 6000 immigrati lasciati in condizioni igienico-sanitarie molto critiche.
Northern african immigrants in queue for food in the portual area of Lampedusa. The Island is currently overpacked with more than 6000 immigrants living in critical sanitary and igienic condition.

PHOTO © ALESSANDRA BENEDETTI
Un ragazzo tunisino protesta nel porto di Lampedusa. Arrivato 10 giorni fa vuole raggiungere la terra ferma ed andare in Francia.
A tunisian guy protesting in the port of Lampedusa. He arrived in the tiny island 10 days ago and wishes to go to France.